Il dipinto è stato indipendentemente riconosciuto come opera autografa di Salvator Rosa dalla prof.ssa Caterina Volpi e dal prof. Nicola Spinosa (comunicazione orale alla proprietà).
Il dipinto è accompagnato da un'expertise della prof.ssa Caterina Volpi.
Sin dal suo primo arrivo a Firenze, nel 1640, Salvator Rosa avviò un’intensa produzione di autoritratti e ritratti in parte legati alla sua parallela attività come attore di teatro. Negli anni fiorentini egli si impegnò spesso nell'esecuzione di teste di carattere, che divennero presto oggetto di collezionismo. In quegli anni si rinviene continuamente la fisionomia del pittore anche in quadri di destinazione aristocratica: si pensi al Filosofo della National Gallery di Londra, al Filosofo che scrive su un teschio del Metropolitan Museum di New York, all’Allegoria della Poesia al Wadsworth Atheneum di Hartford sino ai due veri e propri Autoritratti, rispettivamente in vesti di Pascariello, Londra, collezione privata, e in vesti di guerriero, Siena, collezione Chigi Saracini (Volpi 2014, catt. nn. 141 e 148).
Soprattutto l’Autoritratto come uomo d’armi di profilo, Siena, collezione del Monte dei Paschi (Volpi 2014, cat. 86) mostra strette affinità con la nostra tela, in cui è rappresentato un soldato con elmo e corazza posto di tre quarti, che fissa il riguardante con uno sguardo intenso e profondo e un'espressione vaga e malinconica. La fisionomia richiama evidentemente quella di Salvator Rosa, come si evince dalla comparazione con gli Autoritratti succitati. La testa è leggermente girata al di sopra della spalla sinistra, in una postura che si ritrova nell'Autoritratto in veste di guerriero della collezione Chigi Saracini, in altri due Autoritratti oggi all'Institute of Art di Detroit e in collezione privata inglese (Volpi 2014, cat. nn. 146 e 147) e nel Diogene del Musèe Fesch di Ajaccio (Volpi 2014, cat. n. 145): tutte opere databili tra gli anni fiorentini e quelli romani del pittore (1645-1650).
Questo straordinario dipinto inedito presenta un ductus pittorico particolarmente materico e una pennellata rapida e sintetica che sfrutta la preparazione della tela e alterna con sovrana sprezzatura parti più rifinite ad altre quasi lasciate allo stato di abbozzo. Superbi i riflessi luministici sull'elmo dorato e sull'armatura, come pure la resa liberissima dei capelli che fuoriescono dall'elmo. Nota Caterina Volpi nel suo studio sul dipinto che per la paletta cromatica calda, con i tocchi di rosa sulle guance, la pennellata sciolta e pittorica, il generale timbro coloristico, la nostra tela sembra da ricondurre ai primi anni romani di Salvator Rosa, quando, appena tornato nell’Urbe, il pittore si misurò con lo stile di Pietro da Cortona e di Gian Lorenzo Bernini. Particolarmente chiara risulta qui l'attenzione di Salvator Rosa nei confronti della pittura materica e corrosiva di Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto: elemento che spinge la datazione dell'opera ai primissimi anni Cinquanta, quando più forte appare la reciproca influenza tra i due artisti compresenti a Roma ed entrambi protetti dal guardarobiere dei Pamphilj Niccolò Simonelli.
Bibliografia di riferimento:
C. Volpi, Salvator Rosa “pittore famoso”, Roma 2014.