Al retro riporta la dicitura: ''Mauro Gandolfi fece l'anno 1791''. L'opera è accompagnata dalla scheda a cura di Donatella Biagi Maino. Al verso del dipinto, sul telaio originale (1), si legge una scritta risolutiva per l’attribuzione, . Non possono infatti esserci dubbi sulla paternità dell’opera, di qualità molto alta, che riveste un interesse particolare per procedere nella conoscenza della crescita culturale del pittore bolognese (2), protagonista a latere ma di vaglia dei percorsi della storia dell’arte all’epoca della caduta dell’ancien régime e nel nuovo corso ottocentesco. Allo scadere del secolo dei Lumi, dalla cui filosofia il suo spirito focoso fu toccato, e durante i primi tre decenni del XIX secolo Mauro fu interprete di una pittura altra rispetto al dominante lessico neoclassico, a lui ben noto ma non adottato coerentemente con la sua propensione per un’arte aliena da trionfalismi e proselitismi, avendo consapevolmente scelto un modus operandi che si opponeva al predominio di stilemi imposti dal gusto alla moda e facile retorica per perseguire una espressività spesse volte icastica o irriverente e negli esiti più alti attenta alla resa del naturale.E’ il caso di questo bellissimo dipinto, certamente eseguito nell’atelier del padre, il grande artista Gaetano Gandolfi che ai tempi suoi, nel secondo Settecento, fu meritatamente tra i più celebri pittori d’Italia, e che accolse amorevolmente il figlio al suo ritorno da un lungo periodo di viaggi e soggiorni nelle Fiandre e in Francia, dove Mauro si era rifugiato fuggendo dalla casa paterna per un dispiacere d’amore. Iscrittosi al suo ritorno a Bologna ai corsi dell’Accademia Clementina di Pittura, Scultura e Architettura dell’Istituto delle Scienze di Bologna, sino a fine secolo istituzione ancora di notevole vivacità intellettuale, ne diverrà Professore di Figura già nel 1794, dopo essersi formato studiando la notomia, la scultura antica, la prospettiva ecc. giusta le buone regole dell’incamminamento all’arte. fu tuttavia l’esercizio protratto sotto il magistero paterno ad innervare la sua maniera di quei caratteri di solido vigore grafico e attenzione alla realtà del naturale che caratterizzeranno nel prosieguo la sua colta, e raffinata maniera.Questo studio di carattere, o aria di teste come al tempo erano chiamati simili dipinti che ritraggono persone delle quali è sconosciuta l’identità, scelte tra familiari, garzoni di bottega o popolani, le pollarole e i facchini e i mendichi che le fonti ricordano quali modelli per Gaetano (3), è con ogni evidenza dipinto quasi a gara con le prove del padre, in termini di tale robustezza ideativa ed esecutiva da dimostrare quanto il figlio avesse interiorizzato della pittura del suo primo e migliore maestro il più alto sentire.Il dipinto era custodito presso una collezione privata unitamente ad altro che si deve a Gaetano Gandolfi (4), come attesta la presenza delle riproduzioni fotografiche custodite presso la fototeca del Warburg Institute di Londra. l’opera del padre reca la data del 1790, l’anno stesso in cui i due Gandolfi accolsero la commissione di tre grandi pale d’altare per la chiesa di San Domenico di Ferrara, giusta il contratto steso da Mauro medesimo per sé e per il padre (5), che li impegnava a consegnarli l’anno successivo. I dipinti, la grande tela di Gaetano con Cristo giudice, la Madonna e i santi Pietro, Paolo e Domenico che implora per la città di Ferrara all’altare maggiore e i laterali di Mauro, l’Ordalia per il libro di san Domenico e San Domenico resuscita Napoleone Orsini, ultimati dunque nel 1791, sono esemplari del distacco tra la poetica e lo stile del primo da quelli del più giovane artista, abilissimo ad impaginare dipinti di carattere fragoroso e mosso e tempestoso, assai lontani dall’algido equilibrio che impronta la tela del padre, suo maestro e mentore.Della volontà di misurarsi con quegli ne è prova la tela in questione, da porre in relazione con la Resurrezione dell’Orsini, nella quale le tre figure di vescovi che sono alle spalle di san Domenico, inquadrate dal portico imponente, derivano da questo magnifico studio, nel quale diversi sono gli abiti, per la figura al centro anche l’orizzonte dello sguardo e il copricapo che pure è assente negli altri due attori della narrazione. In questo sostenuto dipinto Mauro dà espressione ai medesimi personaggi che effigierà nella pala, uomini barbuti dal medesimo sembiante ma concepiti secondo un tono sottilmente diverso, a sottolineare di questi la sofferta umanità secondo un canone di verità e di bellezza che molto deve all’esempio del padre, del quale il figlio ammirava la capacità empatica di dare volto e vita alle più diverse personalità. Neppure è impossibile, per altro, che l’opera discenda dal dipinto compiuto, che questo studio dal naturale Mauro sia stato desunto in un secondo momento dalle effigi dei tre vescovi che compaiono nella pala suddetta, descritti con una pittura più ferma e nitida, dal carattere caricato e di diversa efficacia nella ricerca del vero. Magnifica la stesura. pienamente leggibile attraverso lo strato di polvere e sporco depositato nei decenni la ricchezza del colore bruno e la felicità di tocco alla definizione dei lineamenti, dei capelli, le barbe, la cui consistenza è sottolineata da brevi e luminose pennellate intinte in punta nel bianco, a dimostrazione dell’eccellente tecnica pittorica raggiunta dal nostro durante una gioventù comunque burrascosa, conseguenza dell’indole sua ribelle che lo condurrà in giro per l’Italia, di nuovo in Francia e financo nelle lontane Americhe (6).(1) Il dipinto è in prima tela, cosa rarissima che restituisce, nella integrità del supporto e della materia, una possibilità di lettura di tutto rilievo. il telaio è, con ogni evidenza, originale e la scritta da considerare coeva all’esecuzione della tela. (2) Per l’editore Allemandi di Torino ho in preparazione un volume monografico dedicato a Mauro Gandolfi. Sul pittore cfr. D. Biagi Maino, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 52, Roma 1999.(3) Cfr. D. Biagi Maino, La tecnica del pastello nell’arte di Gaetano Gandolfi, in “Studi di storia dell’arte”, n. 27, 2016, pp. 235-242.(4) Vedi scheda relativa in questo stesso catalogo.(5) D. Biagi Maino, Gaetano Gandolfi, Allemandi, Torino 1995, pp. 119-120.(6) Vedi D. Biagi Maino, Talento di famiglia. La pittura di Ubaldo, Gaetano e Mauro Gandolfi, in Da Bononia a Bologna. Percorsi nell’arte bolognese: 189 a. C - 2011, Allemandi, Torino 2012, pp. 297-303.