Plinio Nomellini
(Livorno 1866 - Firenze 1943)
IL POLLEDRO
olio su tela, cm 166x129
firmato in basso a sinistra
retro: etichetta della esposizione del Gruppo Labronico e della esposizione I colori del sogno
Provenienza
Galleria Pesaro, Milano
Collezione privata
Esposizioni
XVIII Mostra del Gruppo Labronico, Milano, Galleria Pesaro 23 aprile - 4 maggio 1932
IV Mostra Sindacale Livornese, Livorno, Bottega d'Arte, ottobre - novembre 1932
Mostra personale, Genova, Galleria d'Arte, gennaio 1934
V Esposizione d'Arte, 88a Mostra Sociale Società delle Belle Arti, Montecatini Terme, Palazzo delle Esposizioni, giugno - ottobre 1934
Mostra di artisti toscani, Cesena, Biblioteca Malatestiana, 3 - 24 settembre 1939
Plinio Nomellini. I colori del sogno, Livorno, Museo Civico G. Fattori - Firenze, Galleria d'Arte Moderna, luglio - ottobre
1998
Bibliografia
XVIII Mostra del Gruppo Labronico, catalogo della mostra (Milano, Galleria Pesaro 23 aprile - 4 maggio 1932), Livorno 1932, n. 89
IV Mostra Sindacale Livornese, catalogo della mostra (Livorno, Bottega d'Arte, ottobre - novembre 1932), in Bollettino di Bottega d'Arte, XI, 10, n. 12
Mostra personale, catalogo della mostra (Genova, Galleria d'Arte, gennaio 1934), Genova 1934, n. 4
V Esposizione d'Arte, 88a Mostra Sociale Società delle Belle Arti, catalogo della mostra (Montecatini Terme, Palazzo delle Esposizioni, giugno - ottobre 1934), Firenze 1934, n. 115
Mostra di artisti toscani, catalogo della mostra, (Cesena, Biblioteca Malatestiana, 3 - 24 settembre 1939), Cesena 1939, n. 7
Plinio Nomellini. I colori del sogno, catalogo della mostra (Livorno, Museo Civico G. Fattori - Firenze, Galleria d'Arte Moderna, luglio - ottobre 1998) a cura di E.B. Nomellini, Torino 1998, n. 66
Il dipinto Il polledro che presentiamo in questa vendita venne esibito per la prima volta alla mostra del Gruppo Labronico a Milano nel 1932 alla Galleria Pesaro. Nomellini scrisse la prefazione al catalogo che qui riportiamo:
Nel tempo in cui viviamo, susseguonsi, avvicendandosi velocemente, evoluzioni d’arte che, nel raffronto, quelle che precedettero la nostra epoca, appariscono a dismisura tarde. Certo, molto di quello che oggidì si celebra, diverrà fra breve caduco; poiché non serve partecipare ad un movimento per volgere in avanti l’arte, quando i valori ed i propositi non sieno bastevoli per apportare nuova espressività di linguaggio confacente per riflettere le immagini insuete delle consuetudini che ci creiamo attorno, e delle assurzioni alle quali aspiriamo.
D’altra parte dimandare al passato concetti che più non son consentanei al nostro sentire, è fallace. Semmai sarà incitamento riguardare come sempre, nel passato, l’arte si avvantaggiasse quando si volse per nuove conquiste. Rimaner fermi nel ricordo delle glorie trascorse vorrà dire intristire e decadere.
Questo vale pel fatto che gli artisti livornesi, qui accolti nella Galleria Pesaro, dimostrano colle loro opere non essere propensi ad ascoltare lontani echi. Livorno, infatti, non è città ove antica tradizione d’arte sia copiosa. Di qualche resto di tradizione etrusca affiorante dalla terra dove Livorno sorse nel 600, presto la ricordanza disparirà; e della rinascita i Medici non trassero se non epigoni copiosi, non iniziatori: il Vasari, il Buontalenti, il Tacca, il Bandinelli, il Cantagallina. Né, salvo l’apparita del Terreni, lieto frescante, tra il 7 e l’800, Livorno, dal Baldini al Pollastrini, romantici, non ebbe salda affermazione d’arte se non nel valido impulso di Giovanni fattori.
Tuttavia val bene che il monito sia volto a coloro affermanti come, se non con l’essere fedeli ai precetti del grande Maestro, nell’arte siavi altezza. E non sua continuato il malvezzo, specie per parte di coloro che non conobbero l’uomo e male interpretano la sua arte, dichiararsi alunni e continuatori della sua gloria. Primo a deprecare sarebbe il Fattori stesso, il quale fu incitatore di superamento, dichiarando come l’arte dovesse comporre parole nuove, per esporre sensazioni non ancora provate.
Per vero dire, in questa Mostra, apparisce palese come dai livornesi si tenti operare senza che qualsiasi dettame dogmatico affiochi l’ispirazione e la fatica. Se si tolga l’amoroso influsso del fattori e dei macchiaioli, nessuna linfa estranea si mescola ed intorbida la pura acqua sorgente da fresca vena. Nemmeno il Modigliani, con lo spasimante pensiero volto a visioni in cui la follia, il vizio, il dolore, trasfigurano l’anima, è tocco dall’insana brama di non apparire se stesso, quando, in specie, in momenti di pacatezza, concepisce immagini di purità.
Arte dunque semplice ed attardata? Nemmeno. Schietta e serena, confacente per narrare la dolcezza della contrada che, per molto tratto, attornia la città amata: la macchia, la collina, le vaste distese del grano; le olivete avverdite dal vento salso; il porto tumultuoso, le scogliere ove l’alga profuma.
Ma da queste riposanti contemplazioni, dovrà prima o dopo, sorgere chi canterà le gesta di questo ardito popolo marinaro, nel cui sangue si mischiò tanto rigoglio di razze diverse le quali, da tutto il Mediterraneo, a Livorno facendo capo ivi apportando i doni della civiltà orientale.
Se questo non accadrà, melanconicamente dovremo pensare come i posteri potrebbero dire, dai quadri fatti, e con ragione, che, in questi anni, l’importazione delle banane e delle noci di cocco, sia stata, nel nostro paese, abbondevole.
Plinio Nomellini
I colori del sogno
Nomellini dipingeva spesso all’aperto nella sua pineta popolata di pavoni, resa più leggiadra dalle piante rare donate dall’amico anarchico Giovanni Rossi, esperto di agraria, animata dalla moglie Griselda, dai figli Vittorio, Aurora e Laura, che sono i protagonisti di tanti dipinti di felice atmosfera ambientati sia a Torre del Lago, sia in Versilia “Prime letture”, 1906, “Baci di sole”, 1908, “Mezzogiorno”, 1912, “Bambine al mare”, 1912/1913). La tela poteva essere sul cavalletto, o inchiodata su due pali infissi nel terreno, all’ombra dei pini o addirittura con i sostegni lambiti dall’acqua del mare. I tronchi degli alberi rilucevano di tocchi di giallo, di carminio, di cobalto, “li faccio cantare”, diceva Nomellini. Tanti erano gli amici che lo andavano a visitare, Eleonora Duse, Gabriele d’Annunzio, Giosuè Borsi, Giacomo Puccini, Grazia Deledda, Isadora Duncan, Moses Levy. Per un visitatore nuovo, per i giornalisti, i critici, uscire dal suo studio ricco di opere del presente e del passato, poteva essere vera l’impressione provata in anni più recenti da Jean Genet, uscito dallo studio di Alberto Giaocometti a Parigi: “Fuori più niente appare vero”.
Le opere degli anni vissuti in Versilia furono esposte in gran parte alle esposizioni delle Secessioni a Roma, nate come contrapposizione alle vecchie esposizioni degli Amatori e Cultori, non poi così innovative in pratica, ma che misero vicini gli artisti italiani a Matisse, Cézanne, Klimt, Rodin, Schiele, Munch, Signac, Vuillard, Zuloaga.
Dopo l’episodio interventista del discorso di D’Annunzio all’inaugurazione del monumento di Eugenio Baroni a Quarto, per il quale Nomellini aveva disegnato il manifesto, la guerra, i dipinti patriottici, “Alle porte d’Italia”, “Vittorio Veneto” del 1918, verranno opere pubbliche legate al nuovo corso politico italiano, ma Nomellini non raggiunge in queste la tensione dell’”Orda”, di “Migrazione d’uomini”, dei primi anni del secolo. La folla che avanza è un tutt’uno quasi senza volto, un’anima unica protesa alla realizzazione di un mondo ideale nuovo, la folla, nei dipinti che esaltano il periodo fascista, come “Ignoto militi” del 1922, “Incipit nova aetas” del 1924, è un insieme di figure in primo piano, dalla fisionomia ben precisa, come se proprio l’identificazione dei personaggi potesse dare una motivazione trascinante.
Le opere pubbliche sono però soltanto un aspetto della vita e del lavoro di Nomellini. Il suo lavoro dagli anni venti in poi è stato trascurato dalla critica, che avendo sempre grande interesse allo studio dei movimenti pittorici forse non trovò in lui l’adesione formale del Novecento. Ma riconsiderare con occhi nuovi opere come “I corsari” del 1924, i paesaggi di Capri, di Quercianella, di Ischia, dell’Elba, l’isola che il pittore scelse per costruire una casa nell’allora deserto golfo di Marina di Campo, ci fa vedere quale vitalità, quale forza creativa abbia sempre mantenuto. Vicino al nostro cuore sono i dipinti di piccole impressioni di paesaggio, ma forse le opere nelle quali Nomellini ferma le fantasie che lo avevano sempre guidato sono quelle che acquistano maggior significato. L’esposizione attuale si chiude con due opere scelte perché emblematiche di questa considerazione: “Scena piratesca” e “Corsaresca” del 1940. Sono due opere parallele per il tema e per il modo di interpretarlo. Sorprendenti per come fino all’ultimo l’artista non sia stato abbandonato dal desiderio di trasformare la realtà. Le figure dei pirati, che si confondono con la roccia come una Dafne che si sta mutando in lauro, o le onde, che diventano cavalli come le dipinse Walter Crane, ci lasciano un Nomellini che ebbe la fortuna di non perdere mai l’anelito a trasfigurare le immagini del mondo in immagini sognate.
Nomellini era divenuto un artista molto noto. A Venezia la Biennale del 1920 gli aveva dedicato una mostra individuale di quarantatre opere, esponeva a tutte le più importanti manifestazioni italiane e straniere. Fu molto vicino ai pittori di Livorno, fu presidente infatti del Gruppo Labronico dal 1928, favorendo con la sua influenza la riuscita delle manifestazioni promosse. Amò scrivere presentazioni per le esposizioni di questo gruppo e ricorsi della sua vita e dei suoi amici sulla stampa. Nel 1934 fece l’esperienza di un viaggio in Tripolitania. Non erano né i tempi né i luoghi dei viaggi in Marocco di Matisse ai primi del secolo, ma il suo animo sempre pronto a calarsi nel fantastico, fu toccato dalle vibranti tracce delle rovine del passato e dal brulichio dei mercati arabi. Nomellini, così contrario al fossilizzarsi nelle accademie, insegnò. Era venuto il tempo di essere lui un maestro, di non tentare cose nuove, ma di pensare a cosa era stata la sua vita, e di approfondire sempre di più lo studio del mondo interiore che aveva cercato di imprigionare e nello stesso tempo di rivelare nei suoi dipinti.
Nel 1934 per la preparazione di una sua mostra personale a Livorno, scrisse alcune note su se stesso a Riccardo Marchi che doveva curarne la presentazione. Possono essere il commiato di un uomo che cerca di capire se stesso e riguarda con umiltà ala suo lavoro e alla sua vita.