ARCHIMEDE SEGUSO
(Murano 1909-1999)
Coppa spinata
Murano, 1972
Vetreria Archimede Seguso
Vetro fumé trasparente con decorazione interna a spina di pesce, corpo di forma circolare
Herringbone bowl
Flaring transparent grey bowl, with internal white “herringbone” filigree patterns, circular shape
alt. cm 11,5, diam. cm 20,8
Esposizioni
XXXVI Biennale di Venezia, 1972;
I vetri di Archimede Seguso, Venezia, Palazzo Ducale, 22 giugno-30 settembre 1991;
The Secret of Murano, Museum Het Paleis, The Hague, 13 settembre - 7 dicembre 1997
Bibliografia
I Quaderni di Archimede Seguso, N. 2, Venezia 1995, p. 8;
U. Franzoi (a cura di), I vetri di Archimede Seguso, Venezia 1991, p. 134 n. 137;
R. Barovier Mentasti, A. Berengo, The Secret of Murano, Venezia 1997, p. 48
Biennale 1972 e il rigore di Archimede Seguso. Nell'anno della restaurazione e della moda optical, il maestro muranese espone vetri spinati e a petali. Sottili filigrane in controluce. In un momento di disorientamento culturale e politico Archimede percorre la strada di un alto rigore formale.
Archimede espone alla Biennale, nella sezione distaccata presso l'Ateneo San Basso, in Piazza San Marco, alcuni vetri a filigrana spinata e a petali. La sua è una presenza a fianco di altri artisti delle cosiddette arti decorative (perlopiù vetri e ceramiche) secondo una consuetudine che risale ancora agli anni Trenta e che poi, purtroppo, sarebbe stata abolita. Le opere di Archimede colpirono, allora, per le forme di assoluta geometria, screziate da sottili motivi lineari a cannuccia, d'un biancore lattiginoso. Erano vetri che oggi possiamo definire optical, paralleli eleganti e finissimi di una maniera che allora andava diffondendosi dall'arte al costume estetico.
In quel 1972 il consociativismo politico aveva portato al timone delle Arti visive un politico mediano come Mario Penelope. Il tema era ambizioso: Opera e Comportamento. Voleva indicare le due linee d'azione dell'arte di allora: da una parte il rientro nella fattualità manuale, dall'altro la fuga verso l'utopia concettuale. Fu una Biennale mediocre, di compromesso, ravvivata soltanto da qualche fatto clamoroso: come quello del povero mongoloide appeso in una sala (l'autore dell'happening era Gino De Dominicis) con un cartello al collo: Seconda soluzione di immortalità: l'universo è immobile.
Niente di più lontano dall'assolutezza classica dei vetri di Archimede Seguso. Forse solo a distanza di tempo si può misurare l'adesione e insieme il distacco di un artista dalla temperie storica. In quel momento di confusione, di disagio, di disorientamento, che caratterizzava non soltanto l'arte ma tutta la cultura italiana (e insieme il generale aspetto politico) Seguso indicava la strada di un alto rigore formale. Era sì dentro il suo tempo: la vicinanza con i fenomeni percettivistici della Op Art era chiara, ma chiaro era parimenti il suo tentativo di distaccarsi dalla contingenza banale della moda, per puntare all'assolutezza della creazione artistica. Non sembri una forzatura: basterà ricordare le fogge optical dell'abbigliamento e in genere del costume estetico di allora. Seguso le interpreta a modo suo, avvicinandosi alle sovrapposizioni virtuali dei fasci di linee di Bridget Riley (un'artista che aveva veramente colpito per il suo rigore percettivista) ma nel contempo richiamandosi ad un'aurea misura che, lo ripetiamo, non poteva che essere classica, al di là delle mode.
Paolo Rizzi