COPPA URBINO, BOTTEGA DI GUIDO DURANTINO, FIRMATO CON MONOGRAMMA AM, F.S., GIÀ BOTTEGA DI FRANCESCO DE SILVANO (?), 1542
Alt cm 6,2; diam. cm 27; diam. piede cm 13,8
Maiolica decorata in policromia con giallo, giallo-arancio, blu, turchino, verde, bruno di manganese e bianco.
Sul fronte sotto la zampa del leone la sigla: monogramma AM sormontato da asterisco e che comprende le iniziali F.S.
Sul retro al centro del piede iscrizione dipinta in blu “1542 / Come San.ierronimo Cava. La / spina dalla zampa. al lione / Urbino.
Sul retro etichetta a stampa della Galleria Pesaro di Milano con n. 237 ed etichetta Ufficio Esportazione.
Provenienza
Torino, collezione Marchese D’Azeglio;
Milano, collezione A. Chiesa;
Milano, collezioni Agosti e Mendoza (vendita Galleria Pesaro, 1936, lotto 237);
Milano, collezione A. Rivolta;
Milano, Palazzo Ferrajoli (vendita Sotheby’s, 4 dicembre 1996, lotto 721);
Milano, collezione privata
Bibliografia
W. Chaffers, The Collector's Hand Book of Marks and Monograms on Pottery & Porcelain of the Renaissance and Modern Periods, Londra 1906 (seconda edizione), p. 66;
L. De Mauri, L'amatore di maioliche e porcellane, Milano 1924 (terza edizione), p. 729 (il monogramma);
G. Botta, Le collezioni Agosti e Mendoza, Galleria Pesaro, Milano dicembre 1936, tav. XCIV, cat. 237;
A. Minghetti, Ceramisti. Artisti Botteghe Simboli dal Medioevo al Novecento, Milano 1939, pp. 386-387
Coppa con ampio cavetto, bordo rilevato e orlo dritto, arrotondato e listato in giallo, piede basso ad anello con base appena estroflessa e orlo arrotondato. Il decoro, disposto sull’intera superficie, si sviluppa su uno smalto bianco grigio ricco di inclusioni, ed è realizzato con colori marcati e ritocchi sottili a punta di pennello a sottolineare i lineamenti e i contorni delle figure. Il colore scuro è abbondantemente utilizzato per evidenziare le ombre e alcuni motivi paesaggistici, come ad esempio la grotta in cui dimora San Gerolamo, mentre i tratti somatici e gli elementi della muscolatura sono rimarcati con abbondante uso di bianco di stagno, e alcuni lievi tratti di stagno lumeggiano anche il paesaggio, sapientemente realizzato, nel quale prevalgono i colori freddi in contrasto con quelli caldi utilizzati nelle figure protagoniste della narrazione.
La scena riproduce un episodio leggendario della vita di San Girolamo, narrato da Jacopo da Varazze nella sua Legenda Aurea (1), ma raffigurato nella nostra coppa secondo una versione differente: qui infatti il leone si presenta a San Gerolamo presso la sua grotta ed è il santo stesso, ai cui piedi spicca il cappello cardinalizio, a liberarlo dalla spina e a curarne la ferita, mentre il miracolo è accompagnato dall’apparizione in cielo di un amorino appena accennato, circondato da cinque stelle. La scena principale è occupata anche dai confratelli del santo, intenti a fuggire per lo spavento, rappresentati secondo le modalità iconografiche che riconosciamo in note opere rinascimentali come le Storie di San Gerolamo di Vittore Carpaccio (2) o l’affresco con la Crocefissione tra santi e Storie di san Girolamo dipinto da Benozzo Gozzoli nel 1452 nella Cappella di San Girolamo della Chiesa di San Francesco a Montefalco (3). L’iconografia del San Gerolamo al centro della scena è invece più comune e trova riscontro in opere dell’epoca, come ad esempio nell’incisione con San Girolamo e il leone di Giovanni Battista Palumba (1500-1516 circa) (4). Sullo sfondo una città turrita e altri due episodi della leggenda: il leone a guardia dell’asino e il leone che per punizione diventa bestia da soma.
Sul retro della coppa non compaiono decorazioni ma solo la scritta“1542 / Come San.ierronimo Cava. La / spina dalla zampa. Al lione / Urbino.
L’iconografia di San Gerolamo (5) qui descritta è aderente alla visione più popolare del santo, ma in realtà la sua personalità è da collegare al diffondersi in Occidente dell’esegesi spirituale di Origene, all’incremento della scelta di vita ascetica della seconda metà del secolo IV e primo ventennio del V, e alla traduzione ed edizione latina definitiva della Bibbia detta “Vulgata”.
La coppa ha una storia collezionistica piuttosto articolata: la notizia più antica che abbiamo rintracciato risale al 1893 (6), ove la coppa viene descritta in relazione alla sigla con monogramma sormontato da un asterisco e, all’interno, le iniziali F e S, iscrizione che compare nell’esergo ai piedi del leone: tale sigla viene in quest’opera attribuita all’antica ceramica di Urbino e la coppa è indicata come precedentemente appartenuta alla collezione torinese del Marchese D’Azeglio. La stessa sigla ritorna pochi anni dopo nel compendio di De Mauri (7), dove compare unitamente a una sigla simile datata sotto il monogramma, entrambe ascritte alla maiolica antica di Urbino. La coppa riappare nelle collezioni Agosti e Mendoza, vendute alla Galleria Pesaro di Milano nel 1936 (8), nel cui catalogo di vendita il piatto, indicato come proveniente dalla collezione Chiesa, è attribuito a Francesco Xanto Avelli, cui viene riferito il monogramma, messo in relazione con il grande piatto con l’assalto alla città Goletta della flotta di Carlo V, datato 1541 e siglato “X” dal pittore rovigino, nel quale si legge In Urbino nella botteg. di Francesco de Silvano (9). Tre anni più tardi Aurelio Minghetti (10) pubblica la coppa descrivendola come “piatto di maiolica Francesco Silvano (?) Urbino 1542”, appartenente alla collezione A. Rivolta di Milano: qui l’autore ipotizza la lettura della sigla come Francesco Silvano, associandola ancora al già citato piatto con L’assalto alla città Goletta della flotta di Carlo V. Dopo quasi sessant’anni il piatto transita nuovamente sul mercato in un’asta dedicata nel 1996 da Sotheby’s (11) a Milano alle collezioni di Palazzo Ferrajoli, questa volta con l’attribuzione a Guido Fontana.
Lo studioso Timothy Wilson ha avanzato l’ipotesi che alcune opere datate 1542 e non firmate fossero frutto di una collaborazione di Francesco Xanto Avelli e altri pittori sul finire della carriera dell’illustre maiolicaro rovigino, proponendo che Francesco di Silvano potesse essere Francesco Durantino, ancora attivo nel 1542 nella bottega di Guido Durantino o in una propria bottega, per poi passare l’anno seguente alla bottega di Guido da Merlino (12). Potrebbe essere quindi Francesco Durantino quel Francesco de Berardino Silvano vasaro presso il quale Xanto lavorò nel 1541? (13) Il padre di Francesco si chiamava Bernardino (14), e nel regesto di fonti durantine nel 1514 in Casteldurante figurava «Berardino di Battista Gnagni di S. Donato», che potrebbe riferirsi alla stessa persona. Il primo documento che parla di Francesco è redatto in Urbino nella bottega di Guido il 18 dicembre del 1537 (15).
I confronti stilistici con esemplari della bottega urbinate del Durantino, ad esempio per le dimensioni della coppa, per il paesaggio delineato con balze erbose poco marcate, alberi contorti e una città di ispirazione nordica, la sapiente realizzazione delle figure e l’uso della tavolozza, non escludono la collaborazione in bottega di un pittore che già tiene ad emergere come personalità propria, confermato dall’apposizione della propria originale sigla, pratica nota in rarissimi esempi.
La vicinanza della nostra coppa con esemplari di grande valore decorativo, come ad esempio il piatto con Noli me tangere, già della collezione Otto Beit, recentemente pubblicato da Elisa Paola Sani (16), con il quale condivide la forza espressiva nella realizzazione delle figure, le scelte cromatiche nei verdi soprattutto nelle balze erbose, i dettagli del paesaggio sullo sfondo e la narrazione di scene su più piani, oltre alla presenza in primo piano di uno steccato ed altri elementi caratteristici, potrebbero anche far pensare all’opera di un giovane Orazio Fontana ancora presente nella bottega paterna o ad uno degli altri grandi pittori attivi in quel contesto.
1) Jacopo da Varazze, chiamato anche Jacopo da Varagine, raccolse le vite dei santi nella Legenda Aurea, cui lavorò a partire dal 1260 fino alla morte, avvenuta nel 1296. In essa al capitolo 146 affronta la vita di San Girolamo, narrando tra gli altri un episodio secondo il quale un giorno un leone ferito si sarebbe presentato zoppicando nel monastero ove risiedeva San Girolamo, e mentre i confratelli fuggivano spaventati il santo si avvicinò accogliendo l'animale ferito e ordinando ai confratelli di lavargli le zampe e curarle. Una volta guarito il leone rimase nel monastero, incaricato dai monaci di custodire l'asino del convento. Un giorno, mentre l'asino stava pascolando, il leone si addormentò permettendo il furto dell’asino da parte di alcuni mercanti di passaggio. Tornato solo al monastero, il leone fu accusato dai monaci di aver divorato l'asino, e per punizione gli furono affidate le mansioni dell’animale perduto. Un giorno il leone incontrò sul suo cammino la carovana dei mercanti e riconobbe nella carovana il medesimo asino. La fiera dopo aver messo in fuga i mercanti condusse l'asino e i cammelli, carichi di mercanzia, al convento. San Girolamo perdonò i mercanti, una volta che questi giunsero al convento per recuperare le loro merci, e al leone fu quindi restituita l’innocenza.
2) Le tele di Carpaccio con le storie di San Girolamo sono custodite alla Scuola Dalmata di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia.
3) Gli affreschi di Montefalco, riferibili al 1452, sono i primi lavori che il pittore esegue come maestro, commissionati probabilmente dal notabile montefalchese Girolamo di Ser Giovanni Battista de Filippis, ma gran parte della decorazione pittorica con le storie della vita di san Girolamo è andata perduta. È probabile invece la riproduzione degli affreschi in una o più incisioni coeve, al momento non identificate.
4) A. Bartsch, Le peintre graveur, Vienna 1803-1821, vol. XIII, p. 249 n. 1. Questa stampa è considerata il capolavoro xilografico dell'incisore identificato con G.B. Palumba.
5) La sua figura è riconducibile soprattutto a tre tipologie: come penitente vestito di pelli o cenci, inginocchiato davanti a un crocifisso nell’atto di battersi il petto con un sasso, con accanto la clessidra e il teschio, simboli del tempo che fugge e conduce alla morte; come erudito seduto nel suo studio, intento a scrivere o leggere, circondato dagli strumenti del sapere; come Dottore della Chiesa, raffigurato invece in piedi, con il vestito rosso da cardinale, titolo che all’epoca in realtà non esisteva ma che gli è attribuito in ricordo del suo lavoro presso il papa.
6) W. Chaffers, The Collector's Hand Book of Marks and Monograms on Pottery & Porcelain of the Renaissance and Modern Periods, Londra 1893